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Obesità e cuore stanco, il mix toglie 6 anni di vita

Un farmaco aiuta a ridurre il rischio di mortalità cardiovascolare

Una persona obesa
Una persona obesa
15 dicembre 2023 | 16.47
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L'obesità pesa sul cuore e può costare 6 anni di vita. Almeno 400mila italiani che soffrono di obesità hanno anche uno scompenso cardiaco: si tratta di due malattie legate a doppio filo e in continua crescita nel nostro Paese dove gli obesi sono circa 6 milioni e i pazienti con insufficienza cardiaca oltre 1 milione. Un mix potenzialmente letale che ruba almeno 6 anni di vita, ma che oggi si può affrontare con un farmaco a doppio effetto.

Lo sottolineano gli esperti della Società italiana di cardiologia (Sic), che dal Congresso nazionale in corso a Roma smontano il falso mito del 'fat but fit', cioè 'grasso ma sano': "L'aspettativa di vita e quella di salute dei pazienti obesi sono più basse rispetto a chi è normopeso", avvertono. "Il paradosso - spiegano - è nato perché l'indice di massa corporea non è l'indicatore più adeguato della reale obesità che si misura meglio con un metro: il girovita deve essere meno di 88 centimetri nelle donne e di 102 cm negli uomini, ma soprattutto deve misurare meno di metà dell'altezza, per la salute del cuore e non solo".

Si stima - ricordano i cardiologi - che entro il 2035 metà della popolazione mondiale sarà in sovrappeso oppure obesa, raggiungendo i 3,36 miliardi. Il grasso corporeo in eccesso comporta ipertensione, sindrome metabolica, diabete, fibrillazione atriale, tutte patologie che si associano poi all'insufficienza cardiaca. Oltre la metà dei pazienti con scompenso ha il cuore che non è in grado di riempirsi correttamente e, di questi, si stima che fino all'80% sia obeso. La combinazione tra obesità e malattia del 'cuore stanco' è molto pericolosa, perché può aumentare fino all'85% il rischio di eventi cardiovascolari fatali, togliendo almeno 6 anni all'aspettativa di vita.

"Scompenso cardiaco e obesità sono due epidemie in rapidissima crescita", afferma il presidente Sic Perrone Filardi, direttore della Scuola di specializzazione in Malattie dell'apparato cardiovascolare dell'università Federico II di Napoli.

"L'insufficienza cardiaca oggi colpisce oltre 1 milione di italiani e si stima un incremento del 30% dei casi entro il 2030. Un aumento trainato in parte dall'incremento dell'aspettativa di vita, perché la prevalenza della patologia raddoppia a ogni decade di età e dopo gli 80 anni lo scompenso colpisce il 20% della popolazione. Tuttavia l'insufficienza cardiaca ha anche l'obesità fra le sue cause principali - precisa lo specialista - perché i chili in eccesso comportano, fra le altre cose, un incremento dell'infiammazione generale, un maggiore stress su metabolismo e sistema cardiovascolare e un aumento del grasso viscerale anche a livello cardiaco".

"E' proprio il grasso viscerale e addominale il più pericoloso - rimarca Ciro Indolfi, past-president Sic e ordinario di Cardiologia all'università degli Studi 'Magna Grecia' di Catanzaro - e quello che dovrebbe essere realmente misurato: la semplice valutazione dell'indice di massa corporea" Bmi, "e quindi del rapporto fra peso e altezza, non basta. E' necessario valutare la distribuzione del grasso e non soltanto l'indice di massa corporea, così ogni possibile vantaggio di sopravvivenza per gli obesi sparisce. L'obesità infatti fa male al cuore: la probabilità di avere un infarto, un ictus o un evento cardiovascolare fatale aumenta dal 67% all'85% rispetto a chi è normopeso, tanto che i chili in eccesso rubano fino a 6 anni di vita, secondo un recente studio pubblicato su 'Jama'".

"La buona notizia - evidenzia Perrone Filardi - è che il 2023 è stato un anno di svolta perché l'obesità è diventata per la prima volta un target farmacologico per combattere lo scompenso cardiaco. Oggi, finalmente, si può intervenire con una terapia mirata all'obesità. Nello studio Select pubblicato di recente sul 'New England Journal of Medicine', condotto su oltre 17mila pazienti in sovrappeso od obesi con malattia cardiovascolare ischemica, ma non diabetici, dimostra che il trattamento con semaglutide sottocute una volta alla settimana riduce del 20% il rischio di mortalità cardiovascolare, infarto e ictus rispetto ai pazienti in trattamento con placebo. Questa è un'evidenza destinata a impattare significativamente sul contrasto del rischio cardiovascolare. Il farmaco", della famiglia degli agonisti del recettore del Glp-1, "ha mostrato anche ottimi risultati sull'insufficienza cardiaca a frazione di eiezione preservata, dove ha dimostrato di migliorare la qualità di vita e la capacità di esercizio dei pazienti".

"Semaglutide inoltre - aggiunge Gianfranco Sinagra, direttore del Dipartimento Cardiotoracovascolare Asugi, università di Trieste - riduce l'infiammazione (-43,5% dei valori di proteina C reattiva) e comporta una maggiore perdita di peso (-13% vs. 2,6%) rispetto al placebo. Si tratta perciò di una strategia di trattamento che incide in maniera positiva sulla perdita di peso, ma anche direttamente sul profilo infiammatorio che accompagna spesso le malattie cardiovascolari ischemiche e lo scompenso. Ciò avrà probabilmente un impatto significativo sulla pratica clinica, soprattutto perché vi è una carenza di terapie efficaci in questo gruppo di pazienti vulnerabili".

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