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Il sociolinguista

"In italiano si dice avvocata, nessun dubbio"

Immagine di repertorio (fotogramma)
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03 settembre 2020 | 11.08
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"I femminili professionali non solo sono corretti storicamente e linguisticamente: l'unica differenza tra maestra e avvocata, è che al primo termine il nostro orecchio è abituato. La mancata presenza nell'uso è dovuta semplicemente all'assenza delle donne in determinati ruoli". E' Vera Gheno, sociolinguista e docente presso l’Università di Firenze, ad affermalo in un'intervista al quotidiano 'Il Dubbio', in merito ad una lettera scritta da un lettore che chiede di abbandonare l'uso del termine avvocata perché lo ritiene scorretto.

"Basterebbe consultare un dizionario aggiornato negli ultimi dieci anni... in italiano si dice avvocata - spiega la professoressa - Per vari motivi: storicamente, prima nel latino e poi nell'italiano, i femminili professionali sono stati usati tutte le volte che ce n'era bisogno. Cioè tutte le volte che una donna ricopriva un certo ruolo, anche in maniera inattesa. Già nel latino troviamo l’uso di ministra, in senso di governatrice. Più avanti troviamo la giudicessa o giudichessa riferito ad Eleonora d’Arborea, amministratrice del XIV secolo in Sardegna. Ma i femminili professionali non solo sono corretti storicamente e linguisticamente, sono attesi anche dalla morfologia della lingua: l'unica differenza tra maestra e avvocata, è che al primo termine il nostro orecchio è abituato. La mancata presenza nell'uso è dovuta semplicemente all'assenza delle donne in determinati ruoli".

"I problemi sorgono quando ci si confronta con femminili 'insoliti', poco sentiti e poco conosciuti. Alcuni li definiscono neologismi, e li trattano con la stessa diffidenza riservata generalmente alle parole nuove. Altri li reputano superflui, o cacofonici, o una corruzione dell’italiano tradizionale. Ma non è propriamente così. - spiega ancora la professoressa Gheno - Peraltro, non si pensi che la reazione di fastidio per i femminili sia legata per forza a una bassa scolarizzazione o a scarse competenze comunicative: spesso, una persona con un livello culturale basso, tenderà a usare istintivamente il femminile professionale, dimostrando così involontariamente quanto la forma sarebbe di per sé naturale nella coscienza di un parlante medio.

"Ma in ambito professionale, spesso sono proprio le donne le più refrattarie all’uso del femminile. La questione si è politicizzata, diventando un’istanza femminista: molte donne non vogliono essere additate come tali, per non rientrare in un certo stereotipo culturale. In molti contesti, tra cui quello giuridico, - aggiunge Gheno - il titolo maschile è percepito come corretto, mentre quello femminile risulta svilente. Questo è un problema che noi donne dobbiamo discutere con noi stesse: non è un problema linguistico, ma culturale".

"Tendenzialmente le evoluzioni linguistiche sono dovute alla pressione dell'uso effettivo. 'L'uso colto', aggiungerebbe il linguista Lorenzo Tomasin: le élite culturali diventano élite linguistiche. Ma io credo che i cambiamenti linguistici avvengano dal basso, non si possono imporre. - conclude Gheno - Si tratta di un circolo: l'uso influisce sulla codifica della lingua, poi i linguisti sono più o meno rapidi a tenerne conto, introducendo queste modifiche nelle grammatiche. E così diventano norma".

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