Circa 2/3 delle uova consumate dagli italiani sono presenti in pasta, dolci ed altre preparazioni: per questo "occorre togliere il segreto sulla destinazione finale dell’import di tutti i prodotti alimentari". A chiederlo è la Coldiretti, dopo lo scandalo delle uova contaminate con l’insetticida Fipronil e commercializzate in Europa. Coldiretti sottolinea come l'Italia abbia importanto nei primi quattro mesi dell’anno 578mila chili di uova in guscio di gallina dai Paesi Bassi, ribadendo la necessità di considerare però "anche i derivati delle uova usati a livello industriale e gli alimenti realizzati con le uova a rischio".
"Non possiamo più aspettare - sostiene Ettore Prandini, vicepresidente nazionale di Coldiretti e presidente di Coldiretti Lombardia - delle 215 uova consumate in media pro capite ogni anno in Italia, ben 140 sono mangiate attraverso pasta, dolci e altre preparazioni alimentari derivate, per le quali non c’è ancora una chiara indicazione di origine".
"Inoltre - aggiunge Prandini - non si può trascurare il ruolo delle triangolazioni di prodotti di paesi extra Ue che vengono importati nell’Unione, diventano europei e poi vengono spediti da noi, tanto nessuno può sapere da dove arrivano le uova utilizzate. Dopo l’ultimo scandalo in Olanda e Belgio, l’Italia non può certo chiudere gli occhi e fare finta di nulla. Il consumatore deve poter scegliere anche in base alla sicurezza che un prodotto davvero italiano gli garantisce".
Sulle uova in guscio l’indicazione di origine è presente, "ma è necessario migliorarne la visibilità - spiega il vicepresidente nazionale di Coldiretti - non sono più sufficienti quattro codici e una data sul guscio, bisogna scrivere chiaramente, anche sulle confezioni e sui cartoni, da dove arrivano e rendere riconoscibile ogni possibile informazione ai consumatori".
Grazie alla produzione nazionale di 12,9 miliardi di pezzi l’Italia - ricorda la Coldiretti - è praticamente autosufficiente per il consumo di uova. Sul guscio delle uova di gallina c’è un codice che con il primo numero consente di risalire al tipo di allevamento (0 per biologico, 1 all'aperto, 2 a terra, 3 nelle gabbie), la seconda sigla indica lo Stato in cui è stato deposto, seguono le indicazioni relative al codice Istat del comune, alla sigla della provincia e, infine il codice distintivo dell'allevatore.
A queste informazioni - conclude l'associazione - si aggiungono quelle relative alle differenti categorie ('A' e 'B' a seconda che siano per il consumo umano o per quello industriale) per indicare il livello qualitativo e di freschezza e le diverse classificazioni in base al peso ('XL', 'L', 'M', 'S').