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Lavoro: Randstad, 87% italiani cerca aziende socialmente responsabili

Marco Ceresa, amministratore delegato Randstad Italia
Marco Ceresa, amministratore delegato Randstad Italia
03 ottobre 2018 | 13.43
LETTURA: 7 minuti

La maggior parte degli italiani si mostra aperta e sensibile ai temi dell’inclusione, della diversity e del contrasto alle diseguaglianze, al punto che la responsabilità sociale di impresa è considerata un requisito fondamentale nella scelta di un datore di lavoro. L’87% dei lavoratori, infatti, dichiara che vorrebbe lavorare soltanto in un’azienda con un solido programma di responsabilità sociale d’impresa, primi in Europa e diversi punti sopra ai principali paesi del continente, come Germania (75%), Francia (78%), Regno Unito (79%) e Spagna (77%).

L’ultima edizione del Randstad Workmonitor - l’indagine trimestrale sul mondo del lavoro di Randstad, secondo operatore mondiale nei servizi per le risorse umane, condotta in 34 Paesi del mondo su un campione di 405 lavoratori di età compresa fra 18 e 67 anni per ogni nazione, che lavorano almeno 24 ore alla settimana e percepiscono un compenso economico per questa attività - rivela una diffusa attenzione degli italiani all’inclusione e al volontariato, oltre che alle politiche sociali delle imprese in cui lavorano o vorrebbero lavorare, che però appaiono tutt’altro che allineate a questa sensibilità. Quasi sei su dieci (57%), inoltre, ritengono importante, quando cercano un impiego, che l’impresa per la quale si stanno candidando partecipi a iniziative filantropiche.

Una sensibilità che si riflette anche nella propensione al volontariato, praticato attivamente da circa un italiano su tre, mentre il 75% afferma che lo farebbe se l’azienda in cui lavora concedesse dei permessi retribuiti. Lo stesso interesse, tuttavia, non è altrettanto diffuso fra i datori di lavoro. Soltanto un’impresa su due, infatti, valorizza l’inclusione e la diversity e solo il 29% incoraggia i propri dipendenti a dedicarsi al volontariato al di fuori dell’orario d’ufficio. Ancora minoritaria la percentuale di aziende che concede permessi di lavoro retribuiti ai dipendenti per queste attività: poco più di una su quattro (26%) lascia che sia il dipendente a scegliere la causa benefica o l’organizzazione a cui aderire, mentre in meno di un caso su cinque (18%) se ne occupa l’impresa.

“Dalla ricerca emerge un forte divario di attenzione e sensibilità all’inclusione fra i lavoratori, che addirittura la pongono come prerequisito per la scelta di un datore di lavoro, e le imprese, che soltanto nel 50% dei casi hanno una politica che valorizza diversity e inclusione", commenta Marco Ceresa, amministratore delegato Randstad Italia. "La presenza di un programma di responsabilità sociale di impresa ben strutturato - spiega - è un elemento che rende fortemente attrattive le aziende, eppure fra i principali paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito e Spagna) soltanto la Francia si mostra più in ritardo di noi su questo fronte (43%), segno che le imprese italiane devono investire maggiormente in efficaci piani di Csr per aumentare la loro capacità di attrarre e trattenere i migliori talenti sul mercato”.

Nel dettaglio, gli italiani sono fra i lavoratori più attenti ai piani di responsabilità sociale d’impresa delle aziende in cui lavorano o vorrebbero lavorare: sono quasi nove su dieci (87%, +9% rispetto alla media globale e +11% sulla media europea) i rispondenti che dichiarano di voler lavorare in aziende ben strutturate da questo punto di vista, al primo posto in Europa. Più della metà, inoltre, ritiene importante, quando cerca lavoro, che l’azienda partecipi ad attività caritatevoli o filantropiche (57%, -1% rispetto alla media globale e +6% sulla media europea).

Per quanto riguarda le imprese, invece, il quadro che emerge dal sondaggio presenta luci e ombre. L’aspetto positivo è che ben due terzi del campione (66%) dichiarano che il proprio datore di lavoro si impegna affinché i propri dipendenti riflettano la diversity presente nel mercato del lavoro locale e nazionale, con una lieve differenza di percezione fra generi (63% degli uomini e 68% delle donne) e un po’ più marcata fra lavoratori giovani e dipendenti senior (71% e 60%). Oltre metà delle aziende, inoltre, sostiene attivamente almeno una buona causa (56%, in linea con la media globale e +4% rispetto alla media europea).

Una sensazione diffusa in egual misura sia tra i lavoratori (57%) sia tra le lavoratrici (55%), mentre è più evidente la differenza tra fasce anagrafiche (62% dei 18-44enni, 46% degli over 45). Soltanto il 50%, però, segue una politica di sostegno all’inclusione e alla diversity in azienda: un buon risultato fra i paesi europei (+7% sulla media) e appena un punto sotto alla media globale, ma segnato da forti differenze di percezione se si scompone il campione per genere (lo dichiara il 48% degli uomini contro il 55% delle donne) e ancora di più per fascia di età (67% degli under 45, solo il 23% dei 45-67enni).

Inoltre, quasi tre italiani su quattro affermano che è importante dare un contributo alla società attraverso il lavoro volontario (74%): un risultato superiore a quello di tutti i paesi europei (+15% sulla media continentale) e ben nove punti sopra alla media globale (65%), con una forbice abbastanza ridotta sia fra uomini e donne (71% contro 77%), che si allarga fra giovani e senior (69% contro 80%). Nonostante la forte adesione al lavoro volontario, però, lo pratica attivamente poco più un lavoratore su tre (35%, +1% sulla media globale e +6% su quella europea), con punte del 39% fra gli uomini (contro il 27% delle lavoratrici) e del 38% fra gli over 45 (contro il 33% dei più giovani).

Il divario si spiega soprattutto con la mancanza di tempo. Il 75% dei dipendenti, infatti, dichiara che si dedicherebbe al volontariato se il proprio datore di lavoro concedesse dei permessi retribuiti (+2% rispetto alla media globale e +5% sulla media del continente), senza significative differenze di genere (75% degli uomini e 76% delle lavoratrici) o di età (77% dei più giovani, 73% dei senior).

Ma l’imprenditoria non sembra ancora pronta a rispondere efficacemente a questa spinta da parte della forza lavoro. Soltanto il 29% delle imprese italiane incoraggia i propri dipendenti a dedicarsi al lavoro sociale non retribuito al di fuori dell’orario d’ufficio (+1% rispetto alla media globale e +6% sulla media europea). A sorpresa, sono i lavoratori più anziani il segmento che si sente più stimolato in questa direzione (38%), mentre la percentuale scende vistosamente fra i giovani (24%). Più contenuta la forbice fra lavoratori (30%) e impiegate (27%). Ancora meno, infine, il campione che dichiara che il proprio datore di lavoro concede permessi retribuiti per dedicarsi ad attività sociali scelte dal dipendente (26%) o dall’azienda stessa (18).

Molto evidente appare il gap tra uomini, a cui è concesso un permesso retribuito per un’attività scelta dall’azienda solo nel 9% dei casi, e donne, a cui viene offerto nel 36% dei casi, e tra over 45, di cui solo il 15% può beneficiarne per un’attività scelta da loro stessi, e i più giovani, che invece lo ottengono nel 33% delle occasioni.

Numeri non del tutto disprezzabili, ma ancora distanti dal modello di riferimento più positivo, rappresentato dalla Danimarca. Nel paese scandinavo il 43% degli intervistati svolge attività di volontariato al di fuori dell’orario lavorativo, il 70% delle aziende sostiene una buona causa, il 48% offre permessi retribuiti ai lavoratori per attività di volontariato scelte dai dipendenti ed il 43% li offre per attività scelte dall’azienda stessa.

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