Il business del lavoro irregolare e del caporalato in agricoltura in Italia è pari a 4,8 miliardi di euro. E' uno dei dati principali del 'Quarto Rapporto agromafie e caporalato' dell'Osservatorio 'Placido Rizzotto' della Flai Cgil, presentato oggi a Roma. Il Rapporto è suddiviso in quattro parti. Nella prima parte, 'Economia mafiosa: agromafie e caporalato', si fa il punto sull’economia illegale nel settore alimentare e sulla applicazione e valutazioni sul campo all’indomani della approvazione della legge 199/2016. E inoltre, si analizzano i numeri, la composizione e la condizione dei lavoratori migranti nell’agricoltura italiana.
Dall'indagine emerge che l'economia non osservata in Italia si stima in 208 miliardi di euro; il lavoro irregolare vale 77 miliardi, ovvero il 37,3%. Il lavoro irregolare incide per il 15,5% sul valore aggiunto del settore agricolo. Il business del lavoro irregolare e del caporalato in agricoltura, appunto, è pari a 4,8 miliardi di euro. Mentre 1,8 miliardi è la cifra raggiunta dall'evasione contributiva.
Sempre secondo il Rapporto, il fenomeno della contraffazione nel settore alimentare fa registrate dal 2012 al 2016 il sequestro di prodotti alimentari contraffatti per un valore di un miliardo di euro. La Guardia di Finanza ha stimato in 5,7 miliardi di euro il mancato gettito fiscale dovuto alla contraffazione e circa 100mila posti di lavoro regolari persi. L''Italian sounding' vale 60 miliardi di euro come volume di prodotti alimentari commercializzati all’estero.
Sono tra 400.000/430.000, spiega il Rapporto, i lavoratori agricoli esposti al rischio di un ingaggio irregolare e sotto caporale; di questi più di 132.000 sono in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale. Questi numeri, purtroppo, confermano uno scenario simile ai precedenti Rapporti. Inoltre, più di 300.000 lavoratori agricoli, ovvero quasi il 30% del totale, lavorano meno di 50 giornate l’anno. Presumibilmente, in questo bacino è presente molto lavoro irregolare/grigio. Il tasso di irregolarità dei rapporti di lavoro in agricoltura è pari al 39%.
Sempre nella prima parte del Rapporto, si analizza la composizione del lavoro migrante in agricoltura. Su circa un milione di lavoratori agricoli, i migranti si confermano una risorsa fondamentale. Secondo i dati Inps, nel 2017 sono stati registrati con contratto regolare in 286.940, circa il 28% del totale, di cui 151.706 comunitari (53%) e 135.234 provenienti da paesi non Ue (47%). Secondo il Crea i lavoratori stranieri in agricoltura (tra regolari e irregolari) sarebbero 405.000, di cui il 16,5% ha un rapporto di lavoro informale (67.000 unità) e il 38,7% ha una retribuzione non sindacale (157.000 unità).
Nella seconda parte del Rapporto, 'Le norme di contrasto allo sfruttamento', si affronta, con un approfondimento monografico, in un 'excursus' che parte dal 1950 e arriva ai giorni nostri, il tema del collocamento, dello sfruttamento lavorativo e delle varie norme e leggi a contrasto.
Inoltre, in questa parte, un capitolo è dedicato ad analizzare i rapporti tra i diversi attori nella filiera di valore nel settore agroindustriale; una filiera nella quale è forte l’asimmetria tra il potere di contrattazione della fase agricola e di quello nelle fasi a valle rispetto a quello degli altri soggetti della catena (ad esempio la Grande distribuzione). "Le analisi empiriche delle catene del valore agroalimentari in Italia -spiega il Rapporto- mettono in evidenza come la distribuzione del lavoro ponga in posizione di vantaggio gli attori diversi dalle imprese agricole".
La terza parte dell'indagine, 'Il lavoro indecente nel settore agricolo', tratta, attraverso una serie di interviste, sette casi di studio, storie di lavoro sfruttato nei territori di sette regioni: Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, Campania, Puglia, Basilicata e Sicilia. In ogni regione sono stati studiati territori particolari, in quanto quelli in cui si registrano forme di lavoro indecenti e al limite dello sfruttamento para-schiavistico.
E queste le condizioni dei lavoratori sottoposti a grave sfruttamento in agricoltura: nessuna tutela e nessun diritto garantito dai contratti e dalla legge; una paga media tra i 20 e i 30 euro al giorno; lavoro a cottimo per un compenso di 3/4 euro per un cassone da 375 kg; un salario inferiore di circa il 50% di quanto previsto dai Ccnl e Cpl. I lavoratori sotto caporale, con un orario medio che va da 8 a 12 ore di lavoro, devono pagare il trasporto a secondo della distanza (mediamente 5 euro); beni di prima necessità (mediamente 1,5 euro l’acqua, 3 euro panino, etc.). E ancora, spiega il Rapporto, le donne sotto caporale percepiscono un salario inferiore del 20% rispetto ai loro colleghi. Nei gravi casi di sfruttamento analizzati, alcuni lavoratori migranti percepivano un salario di 1 euro l’ora.
E dalle informazioni acquisite è stata realizzata una stima che quantifica in 30.000 il numero di aziende che ricorrono all’intermediazione tramite caporale, circa il 25% del totale delle aziende del territorio nazionale che impiegano manodopera dipendente. Il 60% di tali aziende ingaggiano quelli che nel Rapporto sono definiti 'caporali capi-squadra', che si differenziano per rapporti di lavoro comunque decenti (seppur irregolari), da quelli indecenti e gestiti dai caporali collusi con le organizzazioni criminali, se non addirittura mafiose.
Nella quarta parte, 'Le mafie straniere e il caso della mafia bulgara', si affronta il tema delle organizzazioni criminali straniere, in particolare con un focus sul caso della mafia bulgara. Al centro dell'analisi flussi migratori, strategie di insediamento, modus operandi, rapporto tra le mafie straniere e la criminalità locale, e quindi il tema della intermediazione illecita e della tratta e sfruttamento di persone che frena in modo anche violento l’organizzazione sindacale dei lavoratori. La diffusione e ramificazione propria della mafia straniera, si legge nel Rapporto, "le permette di operare simultaneamente in più parti del territorio nazionale e dunque di ingaggiare manodopera, proporla al mercato della domanda/offerta illegale, stabilire/negoziare interessi con imprenditori irresponsabili/disonesti, ricavarne ricchezza".
"Queste modalità - osserva - sono di carattere antitetico a quelle che le organizzazioni sindacali mettono in essere per difendere i lavoratori, a prescindere dalla nazionalità di origine. Da questa prospettiva -conclude il Rapporto- i sodalizi criminali che gestiscono segmenti di offerta di manodopera con regole e comportamenti impositivi e discriminanti possono configurarsi come delle micro-organizzazioni parallele a quelle sindacali, acquisendo, per questa ragione, conseguenzialmente, non solo una 'funzione ombra' ma specificamente un’identità di 'sindacato delinquenziale'".