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Giustizia, politici e sociologi: traffico influenze reato troppo fumoso

Marcello Pera (Fotogramma) - FOTOGRAMMA
Marcello Pera (Fotogramma) - FOTOGRAMMA
03 marzo 2017 | 18.00
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"Fumoso, indistinto, dai contorni e dai confini difficilmente individuabili, che prestano il fianco a una eccessiva discrezionalità dei magistrati e a una difformità di giudizio". Dubbi e ripensamenti si rilevano tra politici e sociologi, sull'opportunità di aver elevato a rango di reato penale il traffico di influenze illecite, un delitto di 'nuovo conio' - ora al centro del caso Consip - introdotto solo a fine 2012 nel sistema penale, in un Paese come l'Italia che della 'raccomandazione' ha fatto storicamente una sorta di bandiera, di carta d'identità, variabile estesa del 'tengo famiglia', a patto che il clientelismo non degenerasse in corruzione politica.

Celebre a questo proposito il 'cameo' del sette volte capo del governo Giulio Andreotti nel film 'Il tassinaro', dove Alberto Sordi approfitta di averlo a bordo del suo taxi per chiedere una raccomandazione per il figlio che sta per laurearsi in Ingegneria: "Lei fa tante raccomandazioni, ne ha fatte sempre tante...", afferma tranquillamente l'attore, senza che il Divo Giulio batta ciglio.

Sulla raccomandazione come reato, invitano a riflettere politici e sociologi sentiti dall'AdnKronos, dal filosofo ed ex presidente del Senato Marcello Pera al leader politico e ora sindaco Clemente Mastella, dal politologo ed ex ministro Giuliano Urbani allo storico esponente socialista Rino Formica, fino al decano dei sociologi Franco Ferrarotti (foto Fotogramma).

"Il traffico di influenze è come il commercio delle indulgenze: non riesco proprio a capire dove stia il reato - commenta il filosofo Marcello Pera, ex presidente del Senato - L'introduzione di questa fattispecie ha rappresentato uno dei modi in cui la classe politica italiana si è suicidata e si è consegnata mani e piedi alla discrezionalità della magistratura. Purtroppo, quando un Paese prende la via del moralismo, poi l'effetto boomerang è assicurato. Il traffico di indulgenze è un reato difficilmente definibile e quando viene definito diventa un altro tipo di reato: corruzione o concussione. E consegnare ai magistrati italiani un reato indefinibile significa dire ai giudici 'voi fate quel che credete sia giusto, noi mettiamo la testa sul ceppo', pronti a farci decapitare".

Per Rino Formica, storico esponente socialista, più volte ministro e protagonista politico durante la leadership di Bettino Craxi, "quando i politici vanno alla ricerca di nuove norme del codice penale per individuare colpe e responsabilità, vuol dire che non sono in condizione di controllare quelle che sono già esistenti. E allora si inventano nuove forme di reato e pensano così di aver soddisfatto quella 'belva' che è l'opinione pubblica. Non arrivando però a capire che poi, quando la belva riceve un osso e non la carne, pretende la carne".

"Condivido le preoccupazioni sul traffico di influenze come reato penale: prevederlo come è stato fatto con una legge può essere estremamente pericoloso - avverte Giuliano Urbani, tra i fondatori di Forza Italia, già ministro della Funzione pubblica nel governo Berlusconi e vicepresidente della Commissione parlamentare per le riforme istituzionali - Specie in un Paese come il nostro che, non avendo una grande tradizione di senso dello Stato, lascia troppo spazio alla discrezionalità dei giudici. Sarei più tranquillo se in Italia ci fosse l'assoluta e quasi sacrale certezza del diritto e del trionfo della giustizia; cosa che qui purtroppo non c'è. Dunque, molto dipende dal magistrato che conduce l'inchiesta. E' il caso di dire: Che Dio ce lo mandi buono!".

Prende posizione anche Clemente Mastella, fondatore dell'Udeur, più volte ministro e ora sindaco nella sua Benevento. "Senza una identità precisa, si apre solo la possibilità che un reato sia interpretato in modo o nel suo opposto da parte di un giudice e utilizzato in un modo o nell'altro dai politici, a seconda se sono tra gli accusati o tra gli accusatori. dicendo questo, non si vuole certo difendere i corrotti, ma distinguere una segnalazione da un illecito penale. Il legislatore non può lasciare troppa discrezionalità di scelta al magistrato: questo è un errore politico".

Il decano dei sociologi italiani Franco Ferrarotti ricorda che "il termine 'influenza' è sinonimo di prestigio ed entrambi richiamano il 'carisma' che ha addirittura un'origine teologica che si rifà alla grazia ricevuta dall'Alto. Quella dell'influenza è una categoria legata alla persona e non quantificabile né identificabile come reato: mi pare davvero molto difficile pretenderlo. Per non parlare del rischio di sfiorare o cadere nel millantato credito. Data la sua indefinibilità, l'influenza non ha la corposità tale da configurarla come materia giuridica e farla addirittura rientrare nel Codice penale".

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