Fa discutere la denuncia del presidente dell'Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone, secondo cui a provocare la fuga dei cervelli è anche la corruzione negli atenei. Ma il fenomeno, che nemmeno il divieto 'anti-baroni' della riforma Gelmini sarebbe riuscito a intaccare, era stato 'certificato' per la prima volta su una rivista internazionale nel 2011. E forse non a caso a puntare il dito era proprio un cervello in fuga. A stabilire - statistiche alla mano - che l'università, nel Belpaese, è un 'affare di famiglia' è infatti una ricerca targata University of Chicago Medical Center, firmata dall'italiano Stefano Allesina, professore del Dipartimento di Ecologia ed evoluzione dell'ateneo americano, dove è anche responsabile dell'Allesina Lab.
La sua analisi della frequenza dei cognomi nelle varie discipline e istituzioni universitarie evidenzia un raggruppamento insolitamente alto degli stessi 'nomi'. Indicando, secondo lo studioso, un "nepotismo diffuso" nelle scuole del Paese. Insomma, non si tratta di pochi casi isolati, finiti magari sulle cronache dei giornali: cattedre, dottorati e ruoli di spicco si tramandano di generazione in generazione. Confrontando la frequenza dei cognomi tra oltre 61.000 docenti in medicina, ingegneria, giurisprudenza, e in altri campi, Allesina all'epoca ha rilevato che i risultati sono "incompatibili" con eque e imparziali opportunità di assunzione. Insomma, secondo l'analisi pubblicata online su 'Plos One', i casi di nepotismo accademico finiti negli anni sui giornali e in tv non sono stati incidenti isolati.
"Non è una questione di poche mele marce, va davvero male", evidenziava Allesina. "Ho scoperto che in molte discipline ci sono molti meno nomi" differenti "di quanto ci si aspetterebbe di trovare in base al puro caso. E questo indica una probabilità molto, molto elevata di assunzioni nepotistiche". Negli ultimi anni, si legge sulla rivista, numerosi scandali hanno colpito il mondo accademico italiano, relativi all'assunzione di familiari di 'baroni' in posizioni di primo piano nelle università pubbliche. Si citano episodi di cronaca e inchieste dei giornali su varie parentopoli, dal caso dell'Università di Bari, a quello della Sapienza di Roma. Per misurare la dimensione del fenomeno, Allesina si è rivolto al database del ministero italiano della Pubblica istruzione.
Un 'cervellone' che - all'epoca della ricerca - conteneva le informazioni su nome e cognome di oltre 61.000 professori di ruolo in 94 istituzioni, insieme con dipartimento e sotto-disciplina relative a ciascuno. Un esercito di cognomi usato da Allesina per eseguire una semplice analisi della frequenza dei nomi. Oltre 27.000 cognomi diversi sono apparsi almeno una volta nel set di dati, e Allesina ha cercato di verificare se alcuni tornassero più spesso del previsto in determinati settori. Così ha programmato il computer per condurre un milione di test casuali nel database e vedere se la probabilità di incappare negli stessi cognomi fosse paragonabile a quella generale, che si trova nella vita reale.
Risultato? Il ricercatore si è ritrovato con in mano una frequenza improbabile degli stessi cognomi, 'spia' secondo lui di assunzioni nepotistiche. "E 'molto semplice, chiunque con un computer portatile può fare questa prova - diceva Allesina - E anche con questa analisi semplicistica può scoprire che alcune discipline sono al di sopra e al di là di quello che uno potrebbe aspettarsi". Ripetendo il calcolo per 28 aree accademiche, lo studioso ha scoperto che la più alta probabilità di nepotismo è relativa a materie come: ingegneria industriale, diritto, medicina, geografia e pedagogia. Campi con una distribuzione di nomi più vicino a quella casuale - e quindi con la più bassa probabilità di nepotismo - sono invece linguistica, demografia e psicologia. In un'altra analisi, Allesina ha indagato sulla distribuzione geografica del nepotismo in Italia.
In questo modello, in pratica una mappa 'dei soliti noti', il ricercatore ha testato la probabilità di trovare almeno una persona che condividesse il cognome con un accademico della stessa area di studi, e questo negli atenei dal Nord al Sud del Paese. Il modello ha scoperto un forte gradiente da Nord a Sud, con la probabilità crescente di incappare in casi di nepotismo nel Meridione, e con un picco in Sicilia.
"Per un italiano, questo non è così sorprendente" commentava con un po' di amarezza Allesina, che nel frattempo ha accumulato pubblicazioni e collaborazioni Oltreoceano. Lo studioso parlava di "due Paesi distinti, in cui nel settore pubblico abbiamo più problemi nel Sud". La sua ricerca suggeriva comunque che il nepotismo fosse un problema diffuso nel mondo accademico italiano, un difetto che minava la qualità della formazione avanzata nel Paese e che indirizzava i professionisti all'estero, per trovare opportunità qui negate. Insomma, il ragionamento di Cantone, che ha evidenziato le molte segnalazioni ricevute.
"In Italia, c'è una fuga di cervelli enorme - sottolineava Allesina - Penso che questo tipo di pratiche di assunzione" messe in luce dall'analisi statistica dei cognomi, "contribuisca molto a questo fenomeno. E anche al fatto che le università italiane non vantino rank molto elevati a livello internazionale". Un altro aspetto, questo, confermato dalle classifiche recenti, pur con talune eccezioni. Certo, il lavoro ricordava la legge approvata alla fine del 2010 per stabilire nuove regole per l'assunzione universitaria e la distribuzione di grant. Ebbene, per Allesina la sua analisi potrebbe facilmente essere ripetuta con regolarità, per verificare se le riforme abbiano davvero inciso riducendo il nepotismo nel sistema. "Penso che questo problema con l'università sia davvero la punta di un iceberg", aveva chiosato Allesina dagli Stati Uniti.
LA RICETTA DELLO STUDIOSO "Fatta la legge, trovato l'inganno. Così in questi anni non è cambiato quasi nulla. E la verità è che non mi sorprendono le parole del presidente dell'Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone", secondo cui a provocare la fuga dei cervelli italiani è anche la corruzione negli atenei. A dirlo oggi, con un po' di amarezza, è Stefano Allesina, da 12 anni 'cervello in fuga'.
"Dagli anni della ricerca - spiega lo studioso raggiunto telefonicamente dall'Adnkronos Salute - sembra proprio che non sia cambiato nulla, e questo non mi sorprende. Dopo il clamore di questi giorni chiederanno leggi più dure, ma se si va indietro nel tempo scopriremo che è da secoli che le cose in Italia vanno in questo modo. Per cambiare davvero serve un intervento più radicale: occorre valutare la produttività degli atenei italiani. Prendano pure chi vogliono, se sono i più bravi la loro produttività schizzerà". Se però nelle classifiche internazionali le nostre università non sono premiate, "uno dei problemi secondo me è che fanno tutte più o meno la stessa cosa. Non ci sono stimoli per selezionare atenei di punta, con caratteristiche distintive".
"Qui in America - prosegue - abbiamo atenei dedicati quasi solo all'insegnamento, altri specializzati in ricerca. Per frequentare l'University of Chicago si pagano circa 60.000 dollari l'anno, ma si ha in cambio un'offerta formativa di eccellenza e molto mirata. E prendiamo circa uno studente su 16 che fanno domanda". Allesina si occupa, fra l'altro, di modelli ecologici, reti ecologiche, analisi dei dati, dinamiche di popolazione e di estinzione. E negli Stati Uniti è diventato papà di due bambini. "Vanno a scuola, e la scuola è dell'Università. Qui posso fare le mie ricerche e ricevo supporto. In effetti, non penso di rientrare. Anche perché, dopo le cose che ho scritto, non credo che sarei, come si dice, persona gradita nelle università", conclude lo studioso.