Da leader ribelle a nazionalista assetato di potere, tanto da combattere all'interno della sua stessa comunità sciita pur di mantenere le posizioni conquistate. E' una parabola discendente quella che negli ultimi otto anni hanno visto protagonista il premier iracheno uscente Nuri al-Maliki, di fatto oggi delegittimato dalla decisione del presidente Fuad Masum di affidare al primo vice presidente del Parlamento Haider al-Abadi l'incarico di formare il nuovo governo di Baghdad.
Nato Nuri Kamal al-Maliki in una cittadina a maggioranza sciita a sud della capitale, Maliki ha aderito al partito islamico Dawa, il movimento storico di opposizione a Saddam Hussein, mentre frequentava l'università. Il partito fu messo al bando dallo stesso raìs nel 1979 e allora Maliki decise di lasciare il Paese. Condannato a morte in contumacia, dal 1980 ha vissuta prima in Iran e poi in Siria, dove ha dato vita al giornale 'Dawa'. In esilio ha preso il nome di battaglia Jawad e coordinato raid alla frontiera tra l'Iran e l'Iraq. Nel 2003, dopo la deposizione di Saddam Hussein in seguito all'invasione Usa, Maliki è rientrato in patria e diventato membro della commissione per la de-Baathificazione incaricata di ripulire gli uffici pubblici dai seguaci dell'ex raìs.
Nel 2006 la nomina a premier dopo che il suo predecessore, lo sciita Ibrahim al-Jaafari, era stato accusato dai sunniti e dai curdi di avere un atteggiamento eccessivamente settario. Al culmine della brutale guerra settaria che in Iraq ha ucciso migliaia di persone ogni mese, Maliki era visto allora come politicamente debole. Nel 2008 la svolta, con la potente offensiva lanciata contro la milizia del religioso sciita Moqtada al-Sadr con il sostegno degli Stati Uniti. Il successo ottenuto sul campo gli valse il plauso del suo popolo e la conquista della reputazione di leader nazionalista che aveva portato sotto controllo la violenza in Iraq. Sotto Maliki, le forze americane si sono ritirate alle fine del 2011 ed è aumentata la produzione di petrolio.
Rieletto premier nel 2010 a capo di un governo di unità nazionale, Maliki ha tuttavia dovuto affrontare una serie di crisi politiche. Accusato di voler consolidare il potere a tutti i costi Maliki viene ritenuto responsabile del netto deterioramento della sicurezza registrato nell'ultimo anno in Iraq. Il premier uscente ha risposto alle crescenti violenze, esplose nell'aprile 2013, con ampie operazioni militari che hanno portato a centinaia di arresti, ma non sono riuscite a frenare la violenza.
Molto limitate sono invece state le concessioni alla minoranza araba sunnita dell'Iraq, la cui rabbia diffusa rispetto al governo a guida sciita è stato un fattore importante nell'aumento della violenza ed è stato sfruttato dai miliziani dello Stato islamico. Questi ultimi sono avanzati prima nell'ovest dell'Iraq, dove le forze di sicurezza irachene hanno perso il controllo all'inizio di quest'anno, e militanti jihadisti hanno lanciato un'offensiva radicale a giugno che ha invaso vaste aree di cinque province. Maliki ha fermamente accusato fattori esterni quali la guerra civile in Siria per l'ondata di disordini, senza fare menzione del ruolo svolto dal suo governo. Con l'inasprissi della crisi ha perso il sostegno di Washington e anche di alcuni membri della sua stessa maggioranza sciita, e il suo tentativo di mantenere il potere sembra essere stata irrimediabilmente danneggiato.